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Alescio, Rosario

Pittore italiano, XX sec.

Il 29 ottobre del 1979 Antonino Uccello si spegneva prematuramente nella sua dimora di Palazzolo Acreide, dal 1983 totalmente adibita a Museo in ossequio alle sue volontà: la Regione Siciliana, grazie anche alla lungimiranza degli eredi, rese imperitura ed emergente l’opera dello Studioso acquisendo e salvaguardando contenitore e contenuto della Casa museo che oggi è considerata una delle più importanti istituzioni a carattere etnografico dell’Italia meridionale. Il tempo trascorso dalla morte di Uccello impone di pensare al futuro dell’Istituzione con nuovi programmi e nuovi traguardi. La disponibilità delle sale di Palazzo Ferla Bonelli, in dotazione al Museo dal 2008, aprono grandi prospettive e stimolano verso un’intensificazione delle iniziative culturali già numerose e qualificate, in particolare negli ultimi due lustri. Ma è soprattutto il rapporto con il territorio ibleo e con le Istituzioni del Val di Noto che induce a potenziare le funzioni e il ruolo sociale del Museo, orientando verso una ridefinizione dei suoi ruoli e delle sue finalità. Un museo del territorio non può essere altra cosa rispetto a un museo delle popolazioni e delle identità che in quel territorio agiscono e operano. Specchio della collettività, riferimento di memorie e di saperi, il museo etnografico deve sempre più divenire luogo di accoglienza e di irradiazione verso il tessuto umano e sociale di riferimento. L’opera, il lascito e la lezione di Antonino Uccello consentono di sviluppare progetti solidi e concreti basati su un rapporto integrato tra economia, cultura e tradizione. In questo rapporto fioriscono risorse di pensiero e di azione sulle quali ottimizzare la convergenza degli operatori e delle Amministrazioni locali, impegnati nella salvaguardia e nella fruizione delle specificità e dei valori caratteristici di un’area in gran parte ritenuta Patrimonio dell’Umanità per le sue eccezionalità architettoniche e paesaggistiche. Ricordare Antonino Uccello equivale, dunque, a orientare lo sguardo verso il futuro piuttosto che guardare al passato con consunto e retorico spirito commemorativo. La sua voce risuona tra intuizioni, ammonimenti, insegnamenti e, soprattutto, armoniosi esempi di umanità e coraggio: graffiti di un’etica sempre più offuscata, nei tempi attuali, da tentazioni di abbandono e rassegnazioni al declino alle quali va opposta resistenza, perseverando nel sentiero di idee forti e radicati convincimenti verso il raggiungimento di una rigogliosa progettualità futura.

Nicola Leanza

Assessore regionale ai beni culturali e ambientali e alla pubblica istruzione

 

Si realizza una volontà di Anna Caligiore Uccello e dei suoi familiari nel presentare i disegni e le pitture di Rosario Alescio, artista popolare dell’isola di Ortigia, attivo fino agli anni Settanta dello scorso secolo, conosciuto e apprezzato da Antonino Uccello che volle farsi donare una parte della sua produzione prima che la morte lo strappasse prematuramente agli affetti e al lavoro di ricercatore e di etnografo. Una volontà che la Signora ha tuttavia invitato a ricondurre direttamente a quella del marito che non fece in tempo a organizzare una piccola mostra per la quale aveva iniziato a progettare e a scrivere. E tuttavia con questo evento non si consuma un intimo affare di famiglia, tra nostalgie, ricordi e inclinazioni alla malinconia. È piuttosto uno stimolo a un ripensamento, a una considerazione sulle modalità di lavoro di Antonino Uccello a trent’anni dalla sua scomparsa. In circa dieci anni di conduzione della sua Casa museo e nel costante accostamento al suo pensiero e alla sua eredità ideologica e scientifica, di Uccello abbiamo imparato ad apprezzare una sorta di spregiudicatezza innovativa tanto incisiva e fecondamente provocatoria di intuizioni e proposte, quanto circolante sottotraccia, con modalità, forme e toni del suo insinuarsi commisurate al personaggio al contempo mite e deciso, duttile e caparbio. Non so a quanti osservatori, ricercatori, accademici e critici, sarebbe venuto in mente di riunire la produzione di Rosario Alescio per farne una mostra. E, quando con la Signora Anna, in una calda giornata della scorsa estate, nella sua casa di Noto, esaminammo i dipinti dell’artista siracusano, che lei aveva per tanti anni custodito, non posso nascondere che circolò non poca perplessità. Ma se Uccello aveva considerato Alescio con interesse e con lui aveva instaurato quel rapporto di rispetto e di attenzione che sapeva intrattenere con gli uomini della sua terra – fossero pastori, contadini, carcerati, pescatori, artigiani, dotti o letterati – un motivo doveva pur esserci. Lo spiega egli stesso nelle poche righe, inedite, che ci ha lasciato su Alescio e che di seguito si riportano. Ma forse, ancor di più, lo spiega Gaetano Gangi in uno scritto che la Signora Anna, con felice scelta e su consiglio congiunto di figlia, nipote e genero, gli commissionò per l’occasione e che il lettore qui ritrova. A noi, cui è stato affidato il compito di custodire, valorizzare e diffondere l’opera e il pensiero di Uccello, ma a cui, soprattutto, è stato assegnato lo sviluppo del progetto della sua idea museografica quale risorsa per il territorio ibleo e luogo di riconoscimento per le popolazioni che in esso vivono, spetta ricondurre una concreta traccia della sua volontà di operatore culturale verso la dimora originaria, là dove egli stesso avrebbe agito se la sorte non lo avesse impedito. Ma, al di là di un’azione vagamente filologica alla ricerca delle sue ‘ultime eredità’, è forse indicativo considerare, con questa mostra, come l’attenzione di Uccello verso l’arte popolare fosse di fatto anche una ricerca tout court del fascino e dello stile e non solo delle ‘tecniche’ sulle cui configurazioni e sulle cui analisi ci si è molto esercitati in un ambito etnografico che ha perso di vista l’uomo nella sua complessa interezza, quasi che fascino e stile fossero elementi estranei e impercorribili all’interno dell’ideologia degli umili. Sotto questo aspetto, la voce di Uccello risuona ancor oggi intensa e costante, come il suo insegnamento, attento sia a penetrare l’oggetto etnografico nella sua valenza di documento storico, sia a considerarlo quale testimonianza di un agire umano non circoscrivibile entro anguste categorie sociali.

Gaetano Pennino

Dirigente responsabile della Casa museo Antonino Uccello

 

Ortigia è un’isola mitica Diciamo che Ortigia è un’isola mitica: è Siracusa. Non è una terra solare per l’imprevedibile intrico di viuzze e ciechi ronchi: il sole non è una presenza assoluta e tuttavia è in ogni pietra, nei tagli di luce e ombra e perfino nel più fitto buio come in certa pittura spagnola che rimanda segrete iridescenze. Le stradette di Ortigia si distendono con la sinuosa mollezza delle branchie di un polipo a cogliere il mare. “È chiaro – scriveva Francesco Lanza in una pagina dedicata a Siracusa – che se non fosse per i ricordi e i rimpianti di nomi gloriosi che la legano alla terraferma, questa breve e inesauribile Ortigia romperebbe l’unico ponte e se ne starebbe sola, tra cielo e mare con le darsene e le cale, e nell’aria l’odore delle alghe, delle carrube e del miele”. In una di queste viuzze, declinante sulla fonte Aretusa, fino a qualche anno fa un ometto canuto, di volto roseo, come uno gnomo, sull’uscio della sua stanzetta esponeva i suoi fogli colorati. Rosario Alescio è nato nella barocca Noto il 19 febbraio del 1900, e da oltre cinquant’anni la sua vita, come un giuoco d’altalena si è svolta entro la breve parabola di questa viuzza: prima un basso di fronte all’attuale “atelier”, con la sua botteguccia di generi alimentari, e poi qui a Ortigia, solo, con un gatto, a scorrere il tempo. Quando cedette la bottega, avrebbe voluto fare il fotografo, ma poi un pittore locale gli fornì alcuni tubetti di colore: da allora don Rosario Alescio se n’è stato a dipingere dietro i vetri dell’imposta nei giorni dell’inverno, e d’estate proiettato sulle brezze della strada. Alcune sue pagine colorate erano esposte sull’uscio di casa come in una edicola di giornali, altri accatastati entro una valigetta disposta a terra, sotto un piccolo tavolo da lavoro. La prima pittura dell’Alescio che ebbi modo di osservare è un Ingresso di Gesù in Gerusalemme, così vicino alle icone su vetro diffuse un po’ in tutta Europa: infatti le immagini di carattere devoto di questo pittore riprendono l’iconografia delle stampe popolari, come quella di Santa Lucia, ad esempio, o l’altra di Sant’Antonio abate che benedice gli animali e che pare un autoritratto dell’Alescio. Anche se il nostro pittore ha fatto appena la terza elementare, poi il muratore e il bottegaio, non mi sentirei di definirlo un “domenicale”, né un naïf o un “pittore del Sacro Cuore”, per usare la definizione di Wilhelm Uhde. Certo in alcuni suoi quadri c’è quella ingenuità tipica dei bambini e un tratto incerto e deformante, con una prospettiva che dissocia i piani e distorce le immagini. Ma più spesso, specie nei suoi paesaggi, si manifesta soprattutto un’istintiva sapienza cromatica. Alescio è quello che si dice un pittore nato, che ha il senso del colore, un colore di atmosfera, lirico, che contrappunta la luce dei giorni e delle stagioni. 7 Alescio non è il naïf narratore di favole, delirante a volte di fantasmi e incubi, con un preciso mondo da esprimere. Nei suoi paesaggi, che a volte non sono quelli di Ortigia ma di Venezia, Zurigo, Praga, Lecce e così via – panorami “copiati” da cartoline e stampe – è sempre un’atmosfera, una luce, che è quella della sua strada, carica del verde scirocco che risale dalla fonte Aretusa e dal mare, la cui presenza, qui, si avverte come quella di un nume. L’istintiva disposizione dei toni esalta il timbro del colore e crea spesso un equilibrio di piani disposti come tessere musive. Le brillanti facciate gialle delle case sono come attraversate da venti stagionali e contornate dal ricamo delle aiuole. Anche nella “Eruzione dell’Etna” le colate di lava scendono a valle come fossero grappoli di glicine in fiore, ricreate da Rosario Alescio per la gioia di vivere e dipingere. del colore, un colore di atmosfera, lirico, che contrappunta la luce dei giorni e delle stagioni.

Antonino Uccello

 

Con Antonino Uccello poeta e Rio Alescio pittore Dal 1997 le mie conversazioni con Corrado e Paolo Morale, padre e figlio, sono tra le più familiari e tra le più provocanti sotto molti aspetti negli ambienti siciliani da me rifrequentati. Due mesi fa è stato Corrado a dirmi che fra le cose lasciate da Antonino Uccello era un certo numero di tempere su carta. Del maestro che le aveva dipinte non si sapeva nulla. Uccello voleva farne una mostra, una mostra desiderava ora farne Anna, Anna Caligiore Uccello, moglie e compagna dalle sintonie tuttora musicalmente ricche di sorrisi e silenzi. E Paolo Morale mi ha consegnato dieci giorni dopo, nel paesaggio marino e terrestre che mi circonda sulla piazza Trieste di Avola, una storica fotografia da cavalletto di quel maestro (lo avevo conosciuto?) che si firmava – Paolo, divertito, me ne mostrò le prove – Rio Alescio (con quel che mi poteva sembrare uno spiritoso soprannome umoristico), la fotografia che metteva sulla scena 36 opere dipinte dall’Alescio nel triennio 1970-1972 e due pagine battute a macchina con la cartacarbone dal nonno Antonino. Fui abbagliato dalla bellezza dei colori trattati come voci nella evidente coralità di quei dipinti la cui innegabile attenzione documentaria confermava l’opera della sua fantasia. E cominciai a conversarne in diversi momenti del giorno e della notte con quel pittore e con Antonino Uccello che avevo conosciuto a Noto per fama di poeta nel 1938, mio compagno agli esami di maturità classica nel 1943 e, nel corso di molti anni e di non pochi miei e suoi avvenimenti una delle rare personalità al di sopra dei limiti altrui e delle mischie, uno dei miei amici più cari. Lascio alla vostra immaginazione, per intenderci, l’ospitalità di una settimana sua e della sua preziosa ed essenziale famiglia, Anna e l’incantevole figliuola sedicenne Rosalia, nella nobiltà culturale senza confronti della sua Casa museo di Palazzolo Acreide. Ero con Emma Contestabile, la grande interprete delle 32 Sonate per pianoforte dell’inevitabile ed inestimabile Haydn da me commentate. Quel non sapere altro di Rio Alescio, lontano dal darmi pensiero e perfino dall’incuriosirmi, acuiva il mio interesse intorno a quelle opere venute insieme con la documentata attenzione di Antonino Uccello. Mi faceva puntare sulla vera vita dell’Alescio, sul suo gioco narrato da lui con i suoi possibili legami, coi suoi mezzi e le sue prospettive, con le sue architetture anche cromatiche, insomma, con le sue parole non parole. Mi dava felicità. Ed ammirai che Paolo Morale condividesse il mio sorvolare sulla immensa profusione delle notizie inutili dovute agli strumenti ch’è stata sempre più in uso nell’ultimo trentennio del Novecento, considerata necessaria perché in ogni luogo nel nostro pianeta raccolta e documentata a piene mani. Richiedeva, infatti, come la rarità o la mancanza di notizie e d’informazioni, le più ardue sentenze della intelligenza. Dal Novecento usciva un maestro che per autenticità ed istinto era giunto con la maggiore semplicità possibile dove pochi altri erano arrivati con lunghi approfondimenti e superamenti e dopo faticose battaglie. Riceveva, quindi, da Antonino Uccello e da noi, le migliori conferme del fatto che anche in tempi di programmazioni artificiose e strumentalizzanti, delle cui manifestazioni colossali rimaneva una insignificante polvere, dipingere era stata un’arte così seria che poteva esser tentata senza fare il verso nemmeno ai letterati anche eccellenti che se ne davano pensiero. Nessun artista dopo Giorgio De Chirico, col quale ne avevamo riso anche a Roma, aveva adoperato per la propria arte tante parole quante i pittori. Le tempere che stavano davanti ai miei occhi avevano affascinato Antonino Uccello che ne aveva conosciuto l’autore e le aveva ricevute da lui. Volli visitarle súbito in sua compagnia, e mi riservai di legger dopo e a parte quel ch’egli ne aveva scritto. Sarebbe stato un tornare a conversare a quattr’occhi con Uccello. Percepivo un’altra una volta la nostra purissima gioia di coesistere nella intimità di un suo paesaggio e di una sua scelta. Ad Antonino Uccello e a me, ammiratori e interpreti, Alescio mostrava i propri segni, le sue simbiosi di partecipazione e di meraviglia: èccovi (noi traducevamo il suo pensare) i miei appunti di un triennio, il mio sorriso in cui consistono la povertà sublime di me pittore ed il mio realizzato equilibrio fra la potenza delle superfici e l’estenuazione del segno che contiene il minimo, anche se può sembrare il molto mai il troppo, delle occasioni esterne per abbandonarsi fino a coincidere scambievolmente con le occasioni interne la cui amicizia antica e la cui amicizia futura ci rendono profondamente felici poiché contengono, anche, suggerimenti e messaggi. Ma sui suggerimenti e sui messaggi, è la mia è la nostra immediata osservazione, dobbiamo intenderci. Non ci riferiamo a quei rumori, non suoni di parola, dei quali il secolo scorso coi suoi nuovi strumenti ha abusato, più che ogni altro tempo alle nostre spalle, in relazione con la rozzezza e l’inciviltà gigantesche, pari soltanto all’orgoglio delle mediocrità imperanti. Ci riferiamo a suggerimenti e a messaggi che possono rendere accessibili a tutti i popoli i civilissimi segni che riceviamo e che mandiamo nell’universo, i segni che non differiscono, se ne dia merito all’attenzione di Antonino Uccello e dei suoi familiari, da quelli che oggi vediamo gestiti da un personaggio così notevole. Sotto quale particolare forma dominante? Sotto una luce venuta tutta colore dalla solarità, sotto un bene senza limiti capace di rendere il genere umano tanto grande da non 10 cedere alla tentazione di lasciar scoccare in se stesso scintille di superbia e di orgoglio. Con che magistrale riflessione fermata sulla carta ce lo dichiara uno sguardo umanissimamente interessato di Rio Alescio su di un Pontefice, Paolo III Farnese, ritratto coi suoi nipoti Alessandro e Ottavio nel 1546 da Tiziano! In quello sguardo e nelle altre opere del nostro sensibile osservatore del Novecento, di un secolo sovraccarico di scoperte e di conquiste che hanno portato il primo uomo sulla luna, e di appannanti errori, non troviamo se non rarissimi, e nel racconto sufficientemente ambiguo, il fasto o le grandigie imperiali o le ulteriori diffuse strumentalizzazioni. Una esaltazione della ricchezza o della miseria nel mondo dell’Alescio non avrebbe senso. Frequentavo l’arte del Rio Alescio al di là della siepe costituita dal rispondere a necessità del momento, dalla siepe che, anche se il nostro non sarebbe mai stato un chiacchiericcio, esclude (quanto amavamo il giovanissimo Leopardi allusivo!), e rischia di sviare. Sentii respirare in me dilatandosi per alcune settimane queste considerazioni, fin quando, messo da parte dell’altro che avevo in corso, cercai la conversazione più storica e più documentaria col mio caro Antonino Uccello, e lessi quel ch’egli aveva scritto per se stesso e per ogni altra persona. Spunti ed argomenti che si ritessevano dentro di me acquistavano, mi è sempre accaduto, un ordine anche diverso da quello in cui si presentavano o si erano presentati, un ordine che, nel mio intimo e, a mio parere, nell’intimo di ogni persona o cosa, era sostanziale. Giustamente la prima, la sovrana essenza pittorica di Rio Alescio che aveva affascinato Antonino Uccello era stata la luce che dava coerenza e significato alle cose che quel maestro amandole aveva dipinte. E dalla luce, lo riascolto, era partito stampando le sue parole con la macchina per scrivere. Ascoltiamolo: “Ortigia è un’isola mitica: è Siracusa. Non è una terra solare per l’imprevedibile intrico di viuzze e ciechi ronchi: il sole non è una presenza assoluta, e tuttavia è in ogni pietra, nei tagli di luce e ombra, e perfino nel più fitto buio, come in certa pittura spagnola, che rimanda iridescenze solari. Le stradette di Ortigia, con la mollezza delle branchie, si distendono a cogliere il mare”. “È chiaro”, aggiunge Antonino Uccello per agevolare il lettore, citando quel che scriveva Francesco Lanza in una pagina dedicata a Siracusa, “che, se non fosse per i ricordi e i rimpianti di nomi gloriosi che la legano alla terraferma, questa breve e inesauribile Ortigia romperebbe l’unico ponte e se ne starebbe sola, tra cielo e mare con la darsena e le cale, nell’aria l’odore delle alghe, delle carrube e del miele”. “In una di queste viuzze, declinante sulla Fonte Aretusa”, continua Antonino Uccello, “un ometto canuto, di volto roseo, come uno gnomo sull’uscio della sua stanzetta espone i suoi fogli colorati. Rosario Alescio è nato nel- la barocca Noto il 19 febbraio 1900 e da oltre cinquant’anni la sua vita, come un giuoco d’altalena, si svolge entro la breve parabola di questa viuzza: prima in un basso di fronte all’attuale atelier, con la sua botteguccia di generi alimentari, e ora qui, solo, con un gatto, a scorrere il tempo. Quando cedette la bottega avrebbe voluto fare il fotografo, ma poi un pittore locale gli fornì alcuni tubetti di colore: da allora don Rosario Alescio se ne sta a dipingere dietro i vetri dell’imposta nei giorni dell’inverno, e d’estate proiettato sulle brezze della strada. Alcune sue pagine colorate sono esposte sull’uscio di casa come in una edicola di giornali, altri accatastati entro una valigetta disposta per terra, sotto un piccolo tavolo da lavoro. È una gioia che questo vecchietto si concede da appena due anni”. In relazione con gli autografi dell’Alescio sulle carte dipinte, quel che leggevo e rileggo era stato scritto da Uccello nel 1971. “L’istintiva disposizione dei toni”, dichiara Antonino Uccello, “esalta il timbro del colore e crea spesso un equilibrio di piani disposto come tessere musive: le brillanti facciate delle case – spesso vi fa spicco un luminoso giallo – sono come attraversate da venti stagionali, mentre l’esaltante ricamo delle aiuole rotea in liberi spazi. Anche in un quadro in cui l’autore ritrae l’Etna in eruzione, scendono a valle colate di lava come fossero grappoli di glicini in fiore, ricreate per la gioia di vivere e dipingere”. Considerando i temi che ricorrevano nei 36 fogli di quella stagione pittorica, quanto mi piacque, in relazione coi titoli ch’era possibile più utilmente definire, e con le date, condurre avanti l’opera di Antonino Uccello, cominciando da quel che Alescio derivava da Tiziano e da Roesler Kranz, e dal rivissuto fascino dei temi religiosi ancora viventi di un tempo veramente antico, lasciatelo dire a chi l’ha conosciuto, fra i quali un Sant’Antonio Abate, che ad Antonino Uccello pare un autoritratto dell’Alescio, ed un’ancora più siracusana Santa Lucia. Continuai coi fiori, ed il tema degli animali, quella che a me parve una tenera Mamma tigre, e con le città da cartoline ricevute o capitate fra le mani, che gli facevano fatto riconcepire e amare la sua notigiana piazza d’Ercole, e Siracusa, fra l’altro un castello Maniace non meno suo di quant’era stato di Federico II che l’aveva costruito, e mediterraneamente Praga e Zurigo oltre Venezia, Feltre, Napoli e Lecce. La sua autorevole fantasia traduceva sfrenandosi ogni cosa. C’erano memorie di racconti delle guerre d’Africa, cose di un tempo lontano, una reinterpretazione del mistero di una caravella, e una classica e romantica navigante moglie di Atene, quel che può sembrare, nella vita condotta fra siciliani e siciliane, fra stranieri e straniere, una confidenza assai ricca che proietta quel ch’egli sente, ed ama, sopra ogni sua espressione. La sua donna? Una sua passione? Teatro antico sempre da raccontare e sempre nuovo.  “Anche se il nostro pittore”, scrive Antonino Uccello, e che altro vorremmo seriamente sapere di più?, “ha fatto appena la terza elementare”, io che leggo ho la felicità di aggiungere che dà tenerissime prove di esser debole in ortografia, “poi” continua con la sua gemmea chiarezza Uccello, “il muratore e il bottegaio, non mi sentirei” assicura, “di definirlo un domenicale, né un naïf o un pittore del Sacro Cuore, per usare la definizione di Vilhelm Uhde. Certo” non esita a dichiararlo, “in alcuni quadri c’è quella ingenuità tipica dei bambini e un tratto incerto e deformante, con una prospettiva che dissocia i piani e distorce le immagini. Ma più spesso, specie nei suoi paesaggi, si manifesta soprattutto un’istintiva sapienza cromatica. Alescio è quello che si dice un pittore nato, che ha il senso del colore, un colore di atmosfera, lirico, che contrappunta la luce dei giorni e delle stagioni”. E si sofferma a chiarire il senso delle distorsioni dell’Alescio al confronto con quelle che non senza argomenti avevano documentato le più alte espressioni di libertà. “Alescio non è il naïf narratore di favole, delirante a volte di fantasmi e incubi, con un preciso mondo da esprimere”. La sua luce “è quella della sua strada, carica del verde scirocco che risale dalla fonte Aretusa e dal mare, la cui presenza si avverte qui come quella di un nume”. Corrado Morale mi aveva, anche, documentato che l’Alescio era nato, ciò confermava quel che Antonino Uccello aveva scritto, a Noto il 19 febbraio 1900; che si era sposato con Gesualda Barone nata a Rosolini il 7 maggio 1910, che risiedeva nella lontana Acradina, al numero 10 della via Adrano; in Acradina ventosa, la frequentavo nei miei anni universitari, come non pochi siracusani che lavoravano in Ortigia, dove i siracusani preferivano passar l’estate; e ch’era morto senza lasciar eredi il 18 ottobre 1976. Movendosi la mia memoria in quel che Antonino Uccello aveva scritto, mi è accaduto di ricordare che il mio padrino di cresima, il violinista Giovanni Drago proveniente da Scicli, ch’era vissuto a Genova prediletto da Toscanini, e si era poi trasferito a Siracusa, negli ultimi anni Cinquanta mi aveva fatto stringer la mano, una prima volta dove l’Amalfitania e la via Landolina s’incontrano, una seconda volta al di là della piazza del Duomo sul fianco di Santa Lucia alla Badia, ad un suo amico da lui molto apprezzato per i suoi interessi e per la modestia delle sue attività in Ortigia. Condividere quel suo giudizio era stata la cosa più facile al mondo poiché le sue osservazioni provenivano da una intelligenza che non temeva confronti. Il mio splendido padrino mi disse poi che quell’uomo, senza studi, aveva sempre percepito tutto con la prontezza di un esperto. Gliene aveva dato una prova da musicista vero, avrebbe detto Toscanini, dopo avere ascoltato in un tardo pomeriggio un lungo assolo di parti del Concerto per violino e orchestra di Mendelssohn, eseguito per lui. Impeccabile, aveva giudicato, nonostante il braccio indebolito. Quell’uomo potrebb’essere stato l’Alescio. Grandi, veramente grandi, sono i meriti di Antonino Uccello che aveva scoperto e desiderava esporre queste tempere proponendo su di esse, come su ogni cosa che lo interessava, la meritata attenzione; e lo sono, ora, anche, veramente grandi i meriti di Anna Caligiore Uccello e di Rosalia Uccello Morale e di Corrado e di Paolo Morale che sono legati da sentimenti così mitici da rendere folgorante la propria quotidianità; e veramente grandi sono, anche, i meriti di tutti dico tutti gli altri che si sono egregiamente adoperati per questa esposizione volendo includere oltre la propria volontà il sentire di Antonino Uccello. Ci faranno sempre distinguere ed amare la genialità dell’Alescio che, col suo non dar importanza a quel che sarebbe estraneo all’assoluto punto d’arrivo dell’arte, si rivela uno dei maestri più istintivi che siano esistiti. Egli è riuscito infatti a compiere dipingendo uno dei più lunghi e dei più felici viaggi nella scultorea immobilità propria di tutte le arti, di quelle visive in particolare, nelle quali non esiste che libertà, che consapevolezza ed insieme conquista, di cima in cima sulle possibilità del genere umano.

Gaetano Gangi

 

Immagini dove tutto è luce Il caos è la forza estrema della disperazione e quando si è disperati, il caos appare come la migliore forma dell’ordine. Quando mio nonno morì avevo quattro anni ma nonostante la tenera età, lui è ancora vivo nella mia memoria. Ricordo quei lontani freddi giorni invernali, quando salivo le scale della Casa museo tutte d’un fiato onde evitare l’“attacco” di Bella, un mastino napoletano quattro volte più grande di quanto lo fossi io. Eccomi finalmente in cima alle scale, mia nonna sulla soglia di casa che mi stringe in un forte abbraccio, per poi correre e salutare zio Seby che, venendomi incontro dalla sala con tono pacato e affettuoso, mi chiama “piricuddu”. Poi nuovamente in corsa verso la camera del nonno, una volta entrato in quella stanza tutto appariva magico e irreale: quell’abat-jour che proiettava nelle pareti strane ombre che si diffondevano in tutta la stanza, mio nonno disteso nel letto si apprestava ad accogliermi con il suo sorriso rassicurante, sornione. “Macabunnu” mi diceva e io, nella mia tenera età, rispondevo innocentemente: “macabunnu tu”. Tutto ciò era una sorta di rituale e ogni volta che si ripeteva questo “giro di saluti” mi sentivo felice, un benessere inconscio mi riempiva il cuore. Finché un giorno, con la solita gioiosa spensieratezza, mi apprestai a compiere il solito “giro di saluti” ma quando entrai nella sua stanza, il letto era vuoto e l’abat-jour spento… mia nonna con parole semplici mi spiegò che era salito in cielo. Dieci anni dopo, morì anche suo figlio. Ancora oggi ricordo l’odore che si respirava in quella casa, l’odore di ogni stanza: la cucina dove mia nonna, con grande semplicità e maestria, sfornava prelibatezze di ogni genere, dove il vapore che fuoriusciva dalle pentole in ebollizione rendeva i vetri delle finestre appannati; la sala da pranzo con il suo inconfondibile odore “ri conca” che, oltre a riscaldare l’ambiente, veniva usato per abbrustolire “i ulivi”; poi la camera da letto di mio nonno adorna di libri con uno strano odore di “ri robbi vecci” e ancora l’atrio della Casa museo con le pareti adorne di piatti di ceramica. Le scale stracolme di piante e in particolare l’edera che con vigore e orgoglio sovrastava la ringhiera in pietra, conferendole un aspetto austero e sinistro durante le giornate uggiose. Il frantoio, l’opera dei pupi siciliani, “a casa ri stari”, “a casa ri massaria”, la cisterna: ogni parte di quella casa trasudava vita. Adesso capisco che questi odori e questi ricordi erano la vera Casa museo, chi la visitava vi respirava passione, amore, l’essenza più intima dell’anima di Antonino Uccello. Ogni oggetto raccontava della passione e della cura con cui egli stesso l’aveva raccolto o trovato in una delle sue tante “spedizioni” e poi collocato “in quello scorcio di paradiso delle cose perdute”. Antonino Uccello aveva crea- 15 to un mondo, un mondo fatto di passato che vive nel presente ed entra nel cuore dell’anima di chi lo visita. Adesso come allora la sua figura e la Casa museo hanno lasciato impronte tra le più estroverse, carismatiche e acute che la scena intellettuale siciliana abbia mai conosciuto. Uccello era privo di quel senso di arroccamento, di normalizzazione, di vorrei-ma-nonposso che condiziona l’esistenza corrente quotidiana di noi esseri umani, dotato di una grande caparbietà che molte volte gli permise, in vita, di vincere battaglie di carattere politico o burocratico o più semplicemente, di non curarsi dei giudizi o dei pregiudizi, uscendo dal senso comune. Se è proprio vero che è nel pieno delle difficoltà che risiede l’occasione favorevole, la Casa museo ne è la perfetta espressione, dato che è nata tra i più disparati sacrifici che una famiglia possa sostenere. Ecco, il punto fondamentale è questo: ogni personaggio descritto da mio nonno è legato a un luogo; l’insieme di questi luoghi crea una visione pittoresca della Sicilia, una Sicilia col sapore antico. Rammentiamoci che tutto ciò che è conservato dentro le mura di questa casa rappresenta le nostre radici e il nostro futuro perché chi dimentica il passato o ne disconosce l’importanza sarà costretto a riviverlo. Dimostrazione di ciò è la mostra di Rio Alescio. Il binomio dei termini “terra” e “mondo”, le parole-chiave “poni qui una terra” e “apre un mondo”: in questo si fa luogo esemplare dell’apertura della verità concepita come l’“orizzonte”, all’interno del quale l’uomo convive. In questa “cosa” l’opera d’arte occupa uno spazio concreto e materiale, si impone come presenza tangibile ma, al contrario di altro, l’opera d’arte si ritrae eternamente, mantiene sempre uno scarto dalla nostra comprensione, continua a interpellare la nostra riflessione mantenendo la sua natura enigmatica. Contemporaneamente l’opera d’arte è autentica ed efficace, “apre il mondo” che noi abitiamo; l’arte non è rappresentazione di un modello esterno, non è copia del reale, tanto meno mera documentazione. L’arte instaura essa stessa categorie di comprensione, principi concettuali, definizioni che orientano la nostra esistenza. L’arte è prima della verità poiché essa, fondando un linguaggio proprio, definendo un suo orizzonte è l’origine stessa della verità, si definisce da sé prima delle nostre riflessioni. L’eterna battaglia tra parole e silenzio... dove ognuno di noi, nella propria intimità, percepisce e comunica con l’opera in maniera differente e soggettiva. Vedere concretizzarsi, dopo trent’anni dalla scomparsa di mio nonno, l’ultima sua mostra dedicata a Rio Alescio, è una grande emozione per me e per la mia famiglia: leggere e rileggere la presentazione fatta da mio nonno è un salto nel passato, un dialogo quasi mistico, come se la sua ombra mi par- 16 lasse. Ed emozione suscita la mostra dei quadri di Rio Alescio, con le sue opere dai colori sgargianti, evocanti una Sicilia illuminata perennemente da un sole iridescente, traboccante di suoni, di colori, di profumi, di immagini dove tutto è luce, ove affiora in maniera ineluttabile l’estate della vita, la sicilianità e la poetica che mio nonno ha sempre usato nei suoi scritti e riscoperto in Alescio, con l’aggiunta di una suggestione tagliente ed efficace tanto penetrante anche per l’osservatore meno esperto. La poesia che emerge porta il profumo del gelsomino, del glicine, dell’uva pigiata, dei gerani in fiore, di un tempo andato che torna come antitesi al progresso dilagante, con uno sguardo volto al passato che al contempo diventa futuro e oggi presente. Tutto ciò mi rende sempre più orgoglioso di essere nipote di Antonino Uccello e soprattutto felice di contribuire a non obliare il passato e le proprie radici bensì a riscattarle nella speranza di un futuro migliore. La conoscenza apre le porte della mente e del cuore, spetta a noi seguire la “chimera” ribadendo che siamo intrisi della stessa natura di cui sono imbevuti i sogni, quei sogni che mio nonno perseguì trasformando una mera chimera, una realizzazione apparentemente impossibile: la Casa museo. Voglio rendere partecipi tutti i lettori della commozione viva in mia nonna e in tutta la mia famiglia che, in maniera umile e silente, con immensa gioia, vede il progetto di mio nonno realizzarsi e prendere così vita.

Paolo Morale

 

Da: http://www.regione.sicilia.it/beniculturali/casamuseouccello/public/outputFCATALOGO%20MOSTRA%20R.%20ALESCIO.pdf

“La sua voce risuona frammenti e lasciti per un’ipotesi di esposizione ritrovata a trent’anni dalla morte di Antonino Uccello

Rosario Alescio artista popolare Palazzolo Acreide (Siracusa)

Casa museo Antonino Uccello

7 novembre 2009 - 10 gennaio 2010

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